Il linguaggio è limitato, è un discorso, un logos e la meraviglia è prima e dopo il logos, è quel fiume di lava che trascina e che rischia di travolgerti se non lo racconti. Bisogna imparare a usare il linguaggio senza perdere la consapevolezza che pur trattandosi di uno strumento eccezionale è comunque parziale è un setaccio, utile a separare la polvere d’ora da quella di terra ma è incapace di trattenere l’acqua eterna (Lezioni di meraviglia di Colamedici e Gancitano).
Imparare non è sapere; ci sono gli eruditi e i sapienti: è la memoria a fare i primi, ma è la filosofia che fa i secondi. La filosofia non si impara. La filosofia è un insieme delle conoscenze acquisite e del genio che le applica (Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas).
Quali sono i modelli linguistici degli italiani? A chi ci rifacciamo come esempio di “bel comunicare”?
Uno dei nostri problemi è che a scuola impariamo una lingua che non corrisponde all’esperienza linguistica che abbiamo quotidianamente. Se da una parte abbiamo lo scolastichese, dall’altra parte, con il diminuire delle abitudini di lettura una delle fonti è la televisione che, come è evidente, ha di fatto rinunciato al ruolo pedagogico.
Con il proseguire della nostra educazione scolastica abbiamo scoperto che a molte domande linguistiche non può essere data una risposta netta: perfino l’Accademia della Crusca, una delle massime autorità in campo linguistico in Italia, spesso risponde “Si, la norma dice questo, ma…” e scontenta chi vorrebbe una risposta certa.
Ma che cos’è allora la norma linguistica?
In una lingua non ci sono leggi immutabili e perfino nel giro di pochi decenni si possono notare dei cambiamenti rispetto a quanto ci era stato insegnato a scuola.
In questo perenne movimento della lingua, forme e costrutti considerati una volta errori possono diventare accettabili da un certo punto in poi, o viceversa. Un verso di Dante recita “perché non ti facci meraviglia”, Boccaccio usava senza problemi “ove che tu vadi” e Leopardi non aveva remore a scrivere “io credo che tu abbi in capo una mala intenzione”.
La norma linguistica può essere definita come un insieme di regole, che riguardano tutti i livelli della lingua accettati da una comunità di parlanti e scriventi in un determinato periodo contesto storico culturale.
Le parti-chiave di questa definizione sono: insieme di regole, accettato da una comunità di parlanti e in un determinato periodo; in altre parole, non esiste, in Italia, un ente che decide sulla correttezza di una regola linguistica, ma sono i parlanti stessi che sono concordi nel rispettarla.
Una qualsiasi lingua, infatti, deve sostanzialmente rispondere alle necessità di coloro che parlano. La grammatica non è qualcosa di inciso sulla pietra, ma è un insieme di regole funzionali alla comunicazione, alla comprensione reciproca e che possono cambiare nel tempo.
La norma non cambia solo nel tempo, ma anche in base alla situazione comunicativa. Dalla conversazione informale al colloquio più formale, dal post su Facebook, alla tesi di laurea, bisogna ricercare l’equilibrio tra la correttezza formale e l’efficienza, senza cadere né nell’eccessiva rigidezza né nella sciatteria linguistica. Occorre essere muniti di competenze retorico-comunicative senza però rinunciare alle conoscenze delle regole di base della nostra lingua.
In una filastrocca di Gianni Rodari si legge:
Tre pescatori di Livorno
Disputano un anno e un giorno
Per stabilire e sentenziare
Quanti pesci ci sono nel mare.
Disse il primo: “Ce n’è più di sette,
senza contare le acciughette”.
Disse il secondo: “Ce n’è più di mille,
senza contare scampi e anguille”.
Il terzo disse: “Più di un milione!”
E tutti e tre avevano ragione.
La studiosa Naomi S. Baron introduceva la definizione di linguistic whateverism, cioè qualunquismo linguistico, una generalizzata disattenzione nei confronti dell’impiego della nostra lingua, come se l’importante fosse il contenuto, non la “livrea” del messaggio. “L’importante è che l’informazione arrivi”, dicono alcuni per difendere la propria sciatteria comunicativa. Purtroppo questo comportamento spesso nasconde grosse lacune e incertezze linguistiche che le persone non ammettono neanche a sé stesse.
Anche i rilievi fatti negli ultimi decenni sulla lingua degli studenti universitari costringono a prendere atto di un quadro poco incoraggiante. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata, usi impropri dell’apostrofo, dell’accento e delle maiuscole. I fraintendimenti lessicali si accompagnano a una generale incapacità di gestire il testo secondo i generali criteri di comprensione e coesione (Guida pratica all’italiano scritto di Vera Gheno).

Un tema importante da affrontare è certamente la differenza tra linguaggio, lingua ed esecuzione linguistica.
Se il linguaggio è una facoltà naturale che concerne la possibilità di costruire e usare sistemi linguistici e si presenta eterogeneo.
La lingua, invece è un sistema omogeneo che riguarda un solo fatto, quello costituito dall’associazione tra le immagini e i concetti. Al carattere naturale delle facoltà del linguaggio la lingua oppone la caratteristica di essere acquisita. La lingua è dunque un thesaurus che si trova depositato nel cervello di un insieme di individui che appartengono alla stessa comunità linguistica.
Il meccanismo che permette ai singoli individui l’accesso a questo deposito è l’uso della parola, ovvero la pratica dell’esecuzione linguistica individuale. È a questo punto che interviene il meccanismo della parola che costituisce senz’altro il primo modello del funzionamento del processo comunicativo. Il processo linguistico comporta necessariamente la presenza di due attori e in questo senso rivela la sua natura comunicativa.
La difficoltà che intercorre tra il messaggio codificato alla fonte e il messaggio ricevuto come significato dal destinatario dipendono dalla differenza nelle competenze sia linguistiche, sia enciclopediche, sia comunicative in generale che possono caratterizzare in maniera specifica l’emittente e il destinatario. Inoltre messaggi analoghi in diverse situazioni socio-culturali sono caratterizzati da diverse regole di correlazione tra significanti e significati. La condivisione di un codice linguistico comune convive con la presenza di numerosi sottocodici, specifici dei diversi gruppi sociali o relativi a segmenti particolari i quali possono produrre interpretazioni differenziate di uno stesso messaggio.
A questa differenza interpretativa è legata la problematica della comunicazione sistematicamente distorta che si verifica in particolare con la comunicazione di massa, infatti in tutte le situazioni in cui, non è possibile per il destinatario intervenire attivamente nei confronti dell’emittente con operazioni di negoziazione, la distorsione del messaggio è piuttosto una regola (Marketing e Comunicazione Strategie, strumenti, casi pratici di M. Masini, J. Pasquini, G. Segreto).
Occorre fare attenzione alle parole che oltre al significato di quanto immaginiamo sulla loro natura ne possiedono un altro che dipende dalla natura, dalla disposizione e dall’interesse di chi parla.
Socrate affermava: “Sappi che il parlare impreciso non è solo sconveniente in se stesso ma nuoce anche allo spirito”.
Se l’uso fraudolento della lingua ha origine antica, oggi è potenziata dai mezzi di comunicazione di massa e negli ultimi anni si è registrata una progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose.
Oggi abbiamo l’impegno morale di puntare alla semplicità, un impegno che riguarda tutti per una cura disciplinata della parola, quando parliamo, quando scriviamo, quando ascoltiamo e leggiamo. Solo le parole che rispettano le cose e i fatti possono rispettano la verità.
Per scrivere in modo chiaro bisogna pensare in modo chiaro e ciò costa fatica. Questo modo di scrivere risale a un’insicurezza profonda, a una mancanza di consapevolezza di una effettiva funzione del linguaggio, a una necessità di esibire qualcosa che non si possiede e nemmeno si sa bene cosa sia.
Le ragioni sostanziali dello scrivere oscuro sono tre:
- la pigrizia del gergo
- il narcisismo
- l’esercizio del potere
Per scrivere bene, in senso etico oltre che estetico, è indispensabile, reprimere la vanità e avere il coraggio di rimuove l’inessenziale.
Un “scrittore” leale deve farsi delle domande:
1 Che cosa sto cercando di dire?
2 Con quali parole lo esprimerò?
3 Quale immagine o modo di dire lo renderà più chiaro?
4 Questa immagine è abbastanza fresca da rendere qualche effetto?
5 Potrei dirlo più brevemente?
6 Ho scritto qualcosa di brutto non necessario?
Le parole sono importanti e usarle in un certo modo implica determinate conseguenze e il nostro modo di esprimerci è, agli occhi e orecchi degli altri, il nostro modo di essere. Gli errori della scrittura sono errori del pensiero e tenere sempre presente a chi ci stiamo rivolgendo e a cosa deve servire quello che scriviamo.
La correttezza dello scrivere deve essere intesa non solo dal punto di vista della grammatica ma anche come accuratezza del testo in tutti i suoi aspetti: dalla scelta del carattere di stampa, dalla sua impaginazione con criterio di immediata leggibilità, dalla selezione degli argomenti ala loro organizzazione in una sequenza motivata che metta in evidenza i punti più importanti.
La correttezza è legata alla chiarezza, all’uso del plain linguage, l’uso del linguaggio semplice, diretto e chiaro, evita le inutili oscurità, il vocabolario pomposo e le frasi dalla costruzione involuta. Si basa su un uso attento e consapevole del proprio lessico e consente a chi legge di concentrarsi sul messaggio senza essere distratto da un gergo inutile e complicato, serve a semplificare la comunicazione con i nostri destinatari serve a farsi capire. La chiarezza costa impegno, fatica e tempo proprio come la brevità. Il Plain linguage fa risparmiare tempo e denaro (Con parole precise di G. Carofiglio).
Siamo realisti e facciamo l’impossibile “Ricorda di osare sempre” disse Gabriele D’Annunzio sviluppiamo un’educazione emozionale che impieghi il magico potere della filosofia. Tra esigere e fare c’è tutta la differenza del mondo. Chi esige non fa altro che sancire i limiti del mondo limitato, ne riconosce i capi e i valori e ne accetta i contorni. Chi fa invece si spinge oltre, trasvaluta i valori, disconosce il ruolo del potere e accetta la chiamata del futuro, osa.
L’uso del pensiero previene il male che non è qualcosa di sofisticato, ciò che salva non è un amico comune ne un sovvertimento delle condizioni economiche ma l’esercizio del pensiero, l’auto-osservazione, il dialogo interiore, dunque il dialogo pubblico. La persona peggiore non è quella cattiva, ma quella mediocre quella che non pensa che non riflette, che non ha idee, non solo è manovrata ma può essere manovratrice perché non riflette sulle azioni che compie e le compie senza sentirsi responsabile.
Hanna Arendt afferma che se non eserciti il pensiero rischi di far parte di uno sciame che indirizza il tuo sentire e il tuo agire, senza che tu te ne rendi conto.